Giovanni Semi insegna nel Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, ed ha condotto in questi anni molti studi su Torino, la sua area Nord e i fenomeni urbani.

Ci siamo conosciuti a Chicago qualche lustro fa, quando passeggiare nel Southside significava fare un incontro ravvicinato con una pistola ad un palmo dal  naso; le nostre periferie sono spesso rappresentate così, come un Southside o un Bronx descritti in qualche film americano. Da qui è partita la conversazione, da come l’uso del termine “periferia” abbia iniziato a “stigmatizzare” territori che con la Banlieue parigina od Harlem non hanno una parentela neppure lontana.

Sono anni che sentiamo parlare di Porta Palazzo e di Aurora come di una periferia, ma parliamo di luoghi che stanno a cinque minuti a piedi dal centro; la narrazione dei media di questi anni si è concentrata su Torino Nord, che ha caratteristiche simili a molte altre aree dimenticate della città. Aurora e Barriera hanno peraltro buoni collegamenti dei trasporti ed un’offerta di case a basso prezzo che hanno attirato, negli ultimi anni, molti studenti e professionisti. Ci sono aree anche belle esteticamente, seppur scarsamente manutenute: ma le case di ringhiera sono molto meglio dei palazzoni di Falchera e Mirafiori, ed anche di certe case sull’asse di corso Francia pensate per famiglie numerose che non esistono più.

I territori urbani sono in continua evoluzione, convivono vecchi meridionali, giovani migranti, studenti e professionisti, ciascuno con una visione parziale e spesso contrapposta della realtà che li circonda.

I significati e le letture sono diversi, ma va evitata quella che Spike Lee, parlando di Brooklyn, ha definito la “fottuta sindrome di Cristoforo Colombo”: ogni tanto qualcuno “scopre” un posto, come se quelle storie e quelle persone non fossero mai esistite. E quelle persone continuano a non esistere, perché tutti parlano “di loro” ma nessuno parla “con loro”.

E la cosa che sorprende sempre nella retorica delle periferie è la sorpresa nell’accorgersi di fenomeni che, in realtà, esistono da sempre.

Le aree oltre la Dora sono storicamente povere, tutti gli indicatori (salute, reddito, lavoro) sono sempre stati i peggiori di Torino, così come quelli di altre aree come Vallette o Falchera; nel tempo la povertà si è trasformata, perché in alcuni casi si è etnicizzata, provocando l’esplosione di riferimenti ad Harlem o altre situazioni di tensione razziale. E nuovamente si trascurano fenomeni come il prezzo delle case, che paradossalmente è sempre più alto per le fasce più povere, che vivono in appartamenti indecenti, a volte anche senza servizi igienici. Durante la pandemia è diventato tragicamente evidente quanto siano numerose le persone che non sopravvivono alla mancanza di un solo mese di reddito, senza alcuna protezione economica e capacità di cumulare un risparmio minimo.

La sinistra colta, quella che negli ultimi anni ha popolato la cosiddetta “zona ZTL”, ogni volta esalta il potenziale multiculturale; la destra, più o meno acculturata, invece sottolinea l’inadeguatezza di questi nuovi poveri al nostro “stile di vita”. Tutti descrivono queste persone, nessuno le intercetta per dar loro voce. La Dora e corso Regina sono come dei fossati, che molti non hanno mai attraversato: si riportano descrizioni dei media, e si esaltano o estremizzano aspetti che sono, in realtà, marginali.

Essendo partiti da Chicago, in questo senso esemplare è il lavoro che fa il City Bureau, un “civic journalism lab” che ha l’obiettivo di dar voce alle comunità locali, di fare in modo che possano esprimere il loro pensiero senza mediazioni o filtri. Qualcosa che anche a Torino potrebbe evitare, come succede forse da 10 anni, di mettere sotto i riflettori solo Torino Nord, dove peraltro si concentrano investimenti di Fondazioni e moltissime iniziative sul territorio (AxTo, Tonite), che a volte in qualche modo sembrano “inseguire” l’attivismo del momento. Forse bisognerebbe tornare a parlare con e di tutti i territori urbani, ed analizzare meglio fenomeni che sono sempre più complessi ed imprevedibili.

Molte volte si è parlato di fenomeni di “gentrification”: in realtà a Torino l’abbiamo registrata davvero forse solo nel Quadrilatero Romano negli anni ’90, con un assetto politico ed economico totalmente diverso; oggi assistiamo a fenomeni speculativi limitati, che rischiano di essere vanificati rapidamente da eventi sempre più complessi da prevedere. Pensiamo agli studenti: hanno garantito una rendita a tanti proprietari di alloggi in Aurora, che in anni recenti hanno investito in alloggi di prezzo medio-basso, ma comunque redditizi: oggi, dopo la pandemia, l’Università sta decidendo se continuare ad erogare corsi online, e questo porta molti studenti fuori sede a rimanere lontani da Torino, vanificando molte previsioni di crescita del mercato immobiliare legato alla presenza del Campus.

Anche chi studia e fa ricerca su questi fenomeni non riesce a formulare previsioni attendibili, perché la complessità è alta e il quadro in continua evoluzione.

Stiamo per affrontare una campagna elettorale complessa, che porterà all’elezione di un sindaco a cui toccherà gestire una profonda crisi sociale, potendo probabilmente disporre di risorse legati ai fondi europei; tornare a lavorare sui territori con efficacia sarà essenziale.

Paradossalmente, le cose da fare sono molto semplici; intanto è sano ricordare che molte decisioni sono prese a livello nazionale o regionale: ad esempio le politiche sul lavoro non coinvolgono un sindaco, ma è a livello locale che se ne registra prima che altrove l’impatto.

Ci sono però ambiti dove la politica locale può agire e intervenire concretamente, partendo, come detto, dall’ascolto delle esigenze dei cittadini:

  • ricostruire dei presidi sanitari territoriali, perché è fondamentale garantire il diritto alla salute e la prossimità dei servizi; non ha senso obbligare le persone ad ore sui tram per raggiungere ospedali dall’altra parte della città, quando abbiamo strutture che possono essere velocemente riconsegnate ai territori. L’idea della “Città della salute” è semplicemente sbagliata, i quartieri hanno bisogno di una ASL e di un pronto soccorso, devono essere garantite le cure primarie; i poveri si ammalano di più, e muoiono anche di più per cause come l’infarto, che non riguarda solo i manager rampanti: l’aspettativa di vita è più bassa in questi territori, migliorarla è un obiettivo prioritario,
  • bisogna tornare a fare politiche di aiuto per le tossicodipendenze, che continuano a peggiorare nel silenzio dei media o nell’ignoranza di chi vive lontano dalle aree complicate; in centro non vediamo per terra siringhe o pipe per fumare il crack, ma il problema esiste e spesso provoca una spirale di conseguenze, perché un tossico rende certamente più difficile la vita di chi gli sta accanto. Le politiche di riduzione del danno devono essere riprese, le comunità devono essere aiutate ad affrontare il problema;
  • ovviamente bisogna migliorare i servizi scolastici, offrire strutture migliori e dare una grande importanza alle attività sportive, oggetto, insieme al verde pubblico, dei tagli di bilancio recenti: tutti gli studi internazionali evidenziano l’importanza di dare ai ragazzi degli spazi di aggregazione e di socialità, è fondamentale costruire infrastruttura sociale;
  • in generale, i servizi sociali devono essere potenziati; il disastro dell’anagrafe non riguarda solo i mesi di attesa, ma l’incapacità di affrontare seriamente i problemi veri del territorio.

L’anagrafe è davvero un caso emblematico, dove si è perso un po’ il senso delle cose: la “digitalizzazione spinta”, peraltro fallimentare, non ha tenuto conto di problemi logici di alfabetizzazione alle nuove tecnologie. Intere fasce della popolazione non riescono a completare una richiesta online, e con la pandemia non solo erano chiuse le anagrafi decentrate, ma non sono stati forniti presidi territoriali per aiutare le persone in difficoltà. E questo porta anche al discorso della funzione di alcuni luoghi pubblici come, ad esempio, le biblioteche: la Brooklyn di Spike Lee ha una istituzione del quartiere che è una delle più importanti biblioteche della città, la Brooklyn Public Library, che ha al suo ingresso un cartello che dice “qui non chiediamo i documenti”. La biblioteca è un luogo dove si aiutano le persone a compilare delle richieste online, si fanno corsi di qualsiasi tipo, dall’inglese all’alimentazione, si incrociano domanda e offerta di cittadini con delle competenze che vengono offerte ad altri cittadini. La retorica della “cultura per la cultura” sembra scomparire magicamente, perché una biblioteca è anche un luogo dove trovare un libro, ma è soprattutto un riferimento centrale di un quartiere. Mi è un po’ indifferente la  nuova “mega biblioteca centrale”, forse sarebbe bene aprire quelle chiuse o aprirne di nuove in giro per la città, con nuove funzioni.

La cultura è sempre una bandiera, anche elettorale, dei ceti urbani istruiti; gli slogan spesso contengono “cultura e bellezza”, ed alla fine sottintendono attività che necessitano di sostegni pubblici perché non possono stare sul mercato. Non c’è nulla di male, purché ci si ricordi delle persone con cui si parla: è necessario, come nell’esempio di Brooklyn, partire da luoghi dove l’offerta è adatta a soddisfare le richieste essenziali, anche a liberare del tempo per chi sta cercando un lavoro o deve preoccuparsi di imparare qualcosa di utile.

Le comunità producono cultura, i ragazzi che caricano video trap su youtube non hanno bisogno di tante risorse, ma del sostegno di base a loro necessario; forse non servono decine di “FabLab”, o idee sofisticate di innovazione sociale, perché forse non rappresentano una priorità. Possiamo costruire spazi civici multifunzionali, fare leva sulla “citizen science”, avere un approccio, nel suo pragmatismo, realmente democratico.

Insomma, la Torino dei prossimi anni può iniziare a dare delle risposte facendo, bene, delle cose semplici: restituire centralità alle persone ed ai loro bisogni quotidiani, lavorando per migliorare l’accesso ai servizi e le possibilità di crescita collettiva e individuale. Non funzionano le “Luci di artista” in quartieri dove non c’è un cinema od un campo da basket, la bellezza sta soprattutto nell’intelligenza dei problemi.

 

Giovanni Semi ha scritto:

 

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